Secondo AICAL (Associazione Italiana Cannabis Light), sono attualmente 10.000 i lavoratori impiegati all’interno del settore della canapa in Italia, e circa 4000 gli ettari di terreno coltivati rispetto ai 400 del non lontanissimo 2013 (fonte: Coldiretti).
Numeri che parlano chiaro: con un fatturato di 150 milioni di euro solo nel 2018, il business della cannabis light è fiorente e ha dato lavoro e migliaia di famiglie, togliendo invece profitti a quello che è il mercato nero.
La legge che consentì al settore di “fiorire” è la 242/16, entrata ufficialmente in vigore il 14 gennaio 2017: in essa viene espressa la liceità della coltivazione di tutte quelle varietà di Cannabis Sativa L. iscritte al catalogo europeo e con tenore di THC inferiore allo 0,2%, con una tolleranza massima di 0,6%. Nello stesso decreto, non viene specificato il divieto di commercializzare i derivati di tali piante, dando così il nulla osta a decine e decine di imprenditori di puntare tutto su un settore completamente nuovo.
Il resto è storia: dal 2017 a oggi, i canapa shop si sono diffusi a macchia d’olio in tutto il Paese, e commercializzano infiorescenze di cannabis light, ma anche oli di CBD, alimentari e cosmetici naturali.
Un impegno comune, quello dei venditori di canapa: sdoganare tutte le false credenze legate a una pianta che può apportare innumerevoli benefici e di cui ancora si parla davvero troppo poco.
La clientela di questi shop infatti, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, è costituita da una maggioranza di pubblico adulto, lavoratori con famiglia che decidono di fare affidamento su un prodotto naturale, che non dia gli effetti psicotropi e collaterali della classica marijuana illegale con THC.
Sì, perchè la principale caratteristica che separa la cannabis light da quella “non light” è proprio un’abissale differenza di tetraidrocannabinolo: se nella prima, la massima percentuale è uno 0,5% (soglia stabilita oltre la quale si ha “efficacia drogante”), nella seconda si possono sfiorare i 20/25 punti percentuali.
Ora, dopo la sentenza della Corte di Cassazione datata 30 maggio 2019, la situazione all’interno del settore si è fatta più confusa e “nebbiosa” di quanto già non fosse.
Agricoltori, imprenditori e lavoratori stanno infatti attendendo con il fiato sospeso le motivazioni della stessa, per capire come comportarsi d’ora in avanti.
A parlare è Marco Paviotti, titolare di CBWEED Shop Torino.
“Ho investito in questa attività circa 20 000€, tutti i miei risparmi e quelli della mia famiglia che ha deciso di sostenermi in questa mia iniziativa imprenditoriale.”
Al contrario di altri commercianti che, intimiditi dalle dichiarazioni della Cassazione, hanno deciso di chiudere l’attività o di togliere preventivamente infiorescenze e derivati dagli scaffali dei propri esercizi, Marco dice: “Attualmente in negozio non ho nessun prodotto che superi lo 0,5% di THC e pertanto non ho ritenuto necessario toglierli dalla vendita, perchè altrimenti tasse e affitto non si pagano…”.
E ancora: “Uno dei punti di forza è la legalità del prodotto, insieme alla sua tracciabilità. Si tratta di prodotti controllati dalla nascita fino all’impacchettamento”.
Marco ha deciso di unire le proprie forze con gli altri imprenditori del settore nel torinese: “Attualmente siamo in fase organizzativa sia a livello locale che nazionale per tutelare un settore che rischia di collassare”.
Ci auguriamo che le richieste di questi lavoratori vengano accolte e che il mercato della cannabis light non venga soppresso, causando una clamorosa recessione del nostro Paese sia a livello economico, sociale e culturale.