Oggi sempre più persone ricorrono all’uso di cannabinoidi per curare o tenere sotto controllo le proprie patologie.
Niente di più semplice: la scienza medica ha ampiamente dimostrato che CBD, THC e altre molecole presenti nella cannabis hanno grandi potenzialità in questo campo e si è passati dalla teoria alla pratica per sfruttare queste doti della pianta. Molti medici scelgono di prescrivere cannabis ai propri pazienti per vari motivi, ma quale forma è consigliata per ottenere il massimo effetto curativo? Scopriamo insieme i vantaggi e gli svantaggi delle differenti vie di somministrazione della cannabis terapeutica.
Oggi ci sembra una novità, ma fino alla prima metà del ‘900 la cannabis era in molti paesi considerata alla stregua di un farmaco di uso comune, successivamente la cannabis è stata letteralmente cancellata dalla farmacopea internazionale e per molto tempo etichettata dalla medicina tradizionale come priva di effetti terapeutici. Oggi sappiamo quanto questo sia stato un grosso equivoco nato da pregiudizi e preconcetti che ci hanno fatto dimenticare quello che i nostri predecessori già sapevano: la cannabis ha grandi capacità curative!
Da diversi anni la medicina moderna è tornata sui suoi passi facendo della cannabis terapeutica una realtà affermata, anche in Italia c’è quindi la possibilità di assumerla come un farmaco sotto controllo medico e previa prescrizione. Per alcune patologie croniche o per problemi di salute fortemente debilitanti può essere acquistata a carico del sistema sanitario nazionale (grazie al decreto del 9 novembre 2015 con il quale il ministero della Salute ha regolamentato la produzione nazionale e le preparazioni farmaceutiche a base di cannabis specificando anche la destinazione di questi prodotti).
Gli ambiti che possono prevedere la prescrizione di cannabinoidi spesati dallo stato sono: l’esigenza di analgesia in patologie che implicano spasticità associata a dolore; di analgesia nel dolore cronico (malattie reumatiche o neuropatie); di un farmaco antiemetico, anticinetosico, o stimolante dell’appetito; di un farmaco ipotensivo come ad esempio nel glaucoma resistente alle terapie convenzionali; per facilitare il controllo dei movimenti involontari nella sindrome di Tourette. Lo stesso documento precisa che la cannabis può essere prescritta anche per altri impieghi e per l’analgesia di tutti i tipi di dolore, ma generalmente in questi casi resta a carico del paziente.
Le forme prescrittive sono ad oggi di due modalità: orale o inalatoria. In base alle vostre preferenze e alla tipologia di patologia potrete valutare con il vostro medico come assumere i cannabinoidi che vi sono stati prescritti.
Le vie di somministrazione della cannabis terapeutica
Come per qualsiasi altro principio attivo, anche per la cannabis la via di somministrazione scelta determina l’intensità e la durata dell’azione del farmaco assunto. Cambiano l’assorbimento, la distribuzione nell’organismo e il metabolismo dei cannabinoidi e quindi la scelta della modalità di somministrazione è molto importante e va valutata con attenzione alle personali necessità. Una via non è migliore dell’altra, semplicemente ci sono pro e contro da valutare a seconda del caso specifico.
La via orale (soprattutto oli concentrati e capsule) è certamente la via d’assunzione più consigliata dai medici per le patologie croniche in quella fetta di mondo dove la cannabis terapeutica è una realtà affermata soprattutto perché ha ridottissimi effetti collaterali, performance durature e il dosaggio è molto semplice da controllare; l’inalazione invece è suggerita soprattutto per il controllo del dolore acuto, per la relativa rapidità di azione.
Fanno la differenza soprattutto le caratteristiche specifiche del prodotto scelto, in particolare il grado di lipofilia/idrofilia e la sua biodisponibilità. Questo perché i derivati della cannabis sono lipofili e quindi scarsamente solubili in acqua, vanno assunti in presenza di olii, grassi o solventi polari come l’alcol etilico se si sceglie la via orale. L’inalazione invece può essere una via rapida e comoda per l’introduzione dei principi attivi prescritti, si può valutare la vaporizzazione o l’inalazione.
Ovviamente si deve avere un buon controllo sulle temperature alla quale la cannabis viene sottoposta, per mantenerne intatte le proprietà curative. L’inalazione della cannabis per combustione è una via molto gettonata da chi ha l’abitudine al fumo di sigaretta, ma non è la più raccomandata dal punto di vista terapeutico perché ha qualche risvolto negativo per le vie aeree (ne abbiamo parlato in questo articolo).
Se volete introdurre nel vostro corpo cannabinoidi per via inalatoria ma temete i risvolti negativi che aspirare il fumo può generare avete alternative valide, prima tra tutte la vaporizzazione, dove il riscaldamento della cannabis è limitato e raggiunge temperature di 160-230°C, riducendo il quantitativo di monossido di carbonio prodotto e di sottoprodotti tossici e minimizzando quindi il rischio di problemi respiratori associati e migliorando la disponibilità di principi attivi.
Sono poi nate anche alcune nuove modalità di assunzione per inalazione, ad esempio il dabbing (ve ne abbiamo parlato qui) che utilizza concentrati ricchi di cannabinoidi invece delle infiorescenze ma in Italia ancora questo non è un metodo molto consigliato a livello terapeutico anche perché non supportato da abbastanza evidenze scientifiche per quanto riguarda gli effetti collaterali.